Un nuovo approccio nella gestione dei centri anti-fumo.
E’ quello che, tra le altre, auspica, interpellata sul punto dalla nostra testata, la dottoressa Johann Rossi Mason.
Giornalista medico scientifico, saggista ed imprenditrice, la Mason è altresì vertice di una agenzia di strategie di comunicazione che reca il suo nome ed ha fondato Mohre, “Mediterranean Observatory of Harm Reduction”, insieme ad un board scientifico composto da vari specialisti.
Recentemente è emerso, per iniziare, il dato legato ai “numeri” dei menzionati Centri antifumo: circa 10.000 utenti che si rivolgono, complessivamente, ai 290 riferimenti nazionali – unità più, unità meno – convenzionati sparsi sul territorio nazionale.
Il tutto con una percentuale di “recidiva” dei pazienti stimata nella misura del 50 percentuale.
Rappresentano, tali siti, nella loro attuale strutturazione, una risposta adeguata al problema fumo?
Sono sufficientemente “armati” dagli organi di indirizzo nazionale per “combattere” la guerra al tabacco?
“Ci sono tante osservazioni da fare sui Centri antifumo – esordisce Johann Rossi Mason – nella mia visione, maturata attraverso anni di formazione e lavoro nel campo della psicologia cognitiva, il centro antifumo dovrebbe cambiare atteggiamento, divenendo propositivo e meno statico.
Per spiegarmi – prosegue l’esperta – i Centri antifumo dovrebbero “cercare” il paziente, andare ad intercettarlo.
Non attenderlo passivamente.
Come da esperimenti positivi già condotti in altri Paesi, il paziente, nel momento in cui entra in ospedale per un evento che sia fumo-correlato o meno, andrebbe
“agganciato” e sondato per comprendere il suo status di fumatore o meno.
Esistono delle precise strategie come quella delle 5a basata su 5 fasi (Ask, Advise, Assess, Assist, Arrange): si tratta di una forma di counselling breve che può facilmente essere messo in atto da personale sanitario addestrato.
Perchè andrebbe “intercettato” in un contesto ospedaliero?
Perchè in quello specifico contesto il paziente presenta una suscettibilità ed una attenzione per la personale salute che difficilmente si può rinvenire in un contesto di vita “normale”.
Ebbene, bisognerebbe “approfittare”, in senso buono, delle finestre di vulnerabilità del paziente per poi personalizzare, successivamente, il discorso di fuoriuscita dalla dipendenza”.
“NECESSARIO CONDURRE LAVORO CULTURALE SUI MEDICI”
Centri in questione che, ora come ora, come spiega la nostra interlocutrice, sono “lontani dalla portata del paziente”.
Un ruolo che potrebbe essere determinante, quello dato da tali presidi, “anche alla luce della loro capillarizzazione sul territorio che, di fatto, li porta ad essere presenti in ogni Azienda sanitaria locale.
Se pensiamo che attualmente vedono 10.000 pazienti l’anno con un tasso di cessazione del 46% a tre anni, quindi meno di 5.000 persone.
Anche se non riuscissimo a decuplicare gli accessi, obiettivo illusorio, saremmo ancora molto lontani dagli oltre 12 milioni di persone che fumano attualmente”.
Altro argomento pure sviscerato dalla Mason, sempre in merito ai Centri antifumo, è quello della metodica del trattamento che “deve essere personalizzato“.
“Le Linee guida identificano una serie di strumenti che individuano farmaci specifici (Vareniclina, Bupropione) ma non sono sempre accolti con favore perchè il fumaore non si sente ‘malato’ e possono dare effetti collaterali che possono diminuirne l’aderenza.
Il farmaco più usato al mondo è la nicotina come terapia sostitutiva somministrata a scalare, sotto forma di cerotti, spray e gomme da masticare.
Le opzioni terapeutiche sono molte e la proposta deve essere discussa caso per caso attraverso una attenta comunicazione con il paziente”.
Dai Centri antifumo alla riduzione del danno, il passo sarebbe breve, nella logica delle cose e nella logica delle evidenze scientifiche attuali.
“Ai Centri affluiscono le persone già convinte di voler smettere e con un buon grado di motivazione, mentre bisogna intercettare quelli più resistenti, una sfida che si può vincere solo con strumenti più impattanti, su milioni di fumatori, raggiunti da tecnologie agili e alla loro portata“, aggiunge Mason.
In Italia, però, il solco è ancora estremamente profondo
“Quello della riduzione del danno è un concetto neonato – incalza la saggista – è necessario condurre un lavoro culturale sui medici: le sigarette elettroniche sono strumento non conosciuto, un gap da colmare con una formazione indipendente ad hoc.
Dobbiamo ricordare che la nicotina non è certo innocua ma è il tabacco che uccide e accorcia la vita di circa dieci anni.
Di conseguenza, molti soggetti agiscono in “autonomia”, tentano di smettere di fumare da se: ma spesso il tentativo fallisce perchè, ad esempio, il consumatore non sa come scalare la nicotina.
In tal senso la sigaretta elettronica va considerata come strumento complementare che presuppone l’affiancamento di persone competenti oppure una scelta che elimina in parte qualche rischio, anche se l’opzione migliore sarebbe non iniziare o smettere, ca va sans dire“.
Sul concept di minor danno da fumo, la Rossi Mason è risolutissima
“Dobbiamo chiederci quale sia il male minore: tamponiamo una determinata situazione, diminuiamo il danno o lasciamo che il fumatore continui tranquillamente a farsi del male?
Un argomento al quale sono molto sensibile”.
E poi c’è il prestigioso discorso Mohre, un progetto pionieristico su scala nazionale che andrà a “monitorare costantemente tutta la letteratura scientifica in tema di riduzione del danno nelle diverse branche della medicina, non solo tabagismo, ed a contrastare le informazioni scorrette, creando cultura sull’argomento al fine di identificare buone pratiche da importare a livello nazionale ed europeo, destinato a medici, pubblico, giornalisti, Istituzioni”.
Una sfida avvincente per il panorama scientifico nostrano
- Scritto da Arcangelo Bove