Come migliorare le strategie in chiave anti-fumo, anche in rapporto alle informazioni estremamente contrastanti che piovono sul capo dei consumatori. Interessanti considerazioni quelle contenute in un articolo di “Fchub.it” a firma di Fabio Beatrice, medico e ricercatore nostrano.
Tra i pionieri della politica in tema di riduzione del danno, l’accademico ha, nel passaggio in questione, snocciolato numeri e dati di interesse e molto eloquenti. “In base ai dati dell’Istituto Superiore di Sanità, al 31 maggio 2019 – fa presente Beatrice – in Italia fumano 11,6 milioni di persone, pari al 22%”.
Una mole numerica importante: ma quante di queste persone si rivolge ai Centri antifumo? “Circa 14.000, meno della metà dei quali – ancora lo pneumologo a “Fchub” – riesce a smettere”. Ovvero, appena lo 0,05% del totale dei fumatori nazionali riesce a liberarsi dal vizio grazie alla via dei Centri antifumo. Troppo poco. “Un numero molto piccolo – spiega Beatrice – non in grado di intaccare la mortalità correlata al tabagismo che si attesta a 81.855 decessi all’anno, secondo le stime del Ministero della Salute”. “Si pone di conseguenza il problema – evidenzia il medico – di come migliorare la proposta di cessazione”.
Ma v’è di più. Come sottolinea ancora il ricercatore tra le pagine virtuali di Fchub, sviscerando dati del Centro antifumo di Torino, “i livelli di cessazione dal tabagismo a 3 anni, pur attenendosi alle indicazioni cliniche delle linee guida, si aggirano intorno al 45 %. E purtroppo nell’ambito del 55% che non raggiunge l’obiettivo si concentra la maggior parte delle patologie fumo correlate: esiti di infarti, portatori di by pass coronarici, ipertensioni gravi, pazienti con neoplasie fumo dipendenti, Bpco. Questi soggetti, di fronte al fallimento, tendono ad allontanarsi dal Caf e generalmente tornano al consumo tabagico iniziale”.
FUMO, UN INVESTIMENTO CHE FA PERDERE ALLO STATO 10 MILIARDI/ANNO
Una tematica che ha rilievo clinico ma anche economico. “In base ai dati del Dipartimento della Ragioneria dello Stato del Ministero Economia e Finanze nel bilancio semplificato dello Stato per il triennio 2017-2019 – sempre Beatrice – le entrate per la voce “tabacchi” nel 2019 , sono pari ad 11.6 miliardi di euro, in crescita rispetto al 2017. Per converso un’analisi di Rand Europe riferita al 2007 stima le spese sanitarie direttamente correlate al fumo in 9 miliardi di euro e la perdita di produttività in 12,5 miliardi di euro per un totale di circa 21,5 miliardi di euro. Da queste informazioni, seppure asimmetriche sul piano temporale, pare evidente che quello del tabagismo sia un bilancio in forte passivo per lo Stato Italiano”.
Non aiutano, del resto, come non manca di evidenziare lo pneumologo, le informazioni contraddittorie che viaggiano attraverso media e, soprattutto, social. Dalle conclusioni scientifiche di chi tranquillizza circa la minor tossicità dell’elettronica rispetto al fumo classico, a quelle di ricerche “estreme” che ipotizzano, invece, danni legati allo svapo in forza di condizioni ricreate in laboratorio assolutamente non riproducibili in alcun modo nel “reale”. Questione di comunicazione, di messaggi distorti, di noi altri presi in mezzo a venti che spirano da e verso tutte le direzioni.
“PRINCIPIO PRECAUZIONE NON PUO’ PORTARE A PARALISI”
“In conclusione – va verso l’esito la riflessione di Beatrice affidata a “Fchub” – è evidente che il principio di precauzione debba necessariamente valere per la gran parte delle persone che non fumano. Norme e divieti a protezione dei non fumatori non possono distinguere tra fumo elettronico e fumo di sigaretta. Ma questo principio non può portare ad una paralisi nei confronti di chi continua a fumare ed a morire. L’insuccesso delle attuali politiche di contrasto al tabagismo propone questioni di efficacia e ricevibilità delle proposte. Una strategia di riduzione del rischio che prenda in considerazione il fumo elettronico “all’inglese” potrebbe introdurre elementi di novità in questo scenario che appare altrimenti cristallizzato”